Sardocalce, era una fabbrica di sabbia per cemento. Oggi ci ricorda il peso dell’esistenza

Fabbrica abbandonata, Siniscola
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In tanti ci scrivono di quanto sia difficile trovare parcheggio vicino ai luoghi abbandonati. Ma la Sardocalce di Siniscola dispone di un ampio parcheggio all’ingresso, condiviso con un discount in stile tirolese, forse per dare un’idea di efficienza teutonica a un alimentari italiano. Inoltre, sarebbe possibile effettuare un safari fotografico restando comodamente seduti nel proprio mezzo.

La Sardocalce era una di quelle fabbriche che svuotano le montagne, in questo caso il Montalbo, per costruire sé stesse e durante il miracolo economico dare un tetto alla brulicante presenza umana di residenti e turisti. Si possono osservare i macchinari superstiti dell’intrapresa dell’Ingegner Tondi costruita fra il 1953 e il 1954 lungo la Strada Statale 125 Orientale Sarda, coi dintorni costellati dai vuoti delle cave.

Un misto di rispetto, disinteresse e controllo sociale ha permesso la conservazione di un grande numero di reperti, mai rubati o bruciati, ma dimenticati sotto i rifiuti delle ultime tristi sbronze di sbandati e migranti, frai squallidi resti di rapporti consumati nella vergogna. Vite bruciate e amori fugaci come nelle canzoni del “siniscolese” Vasco Rossi, il cui padre negli anni ‘60 faceva l’autista proprio per la Sardocalce. L’ultimo prodotto a uscire dalla fabbrica fu la sabbia per cemento, e poi più nulla: ferri arrugginiti, cemento armato al collasso e l’ennesima cava abbandonata.

I sacchi sparsi per terra sono ancora da 40 chili, di quelli ora vietati per non spezzare la schiena ai muratori. Sacchi che i nostri genitori e nonni hanno portato senza fiatare per ricostruire il Paese, ma che ai loro figli viziati sembrano troppo pesanti con lo stress della vita moderna, in un clima di decadenza che sembra suggerire che sia meglio non fare nulla che rischiare di farsi male. Perché forse non porteremo più sacchi di cemento fuori tabellare, ma il peso di questi abbandoni ci opprime ugualmente l’anima. La nostra schiena è comunque piegata, solo che non ce ne accorgiamo.

Viviamo come schiavi di queste normative astratte imposte dai burocrati, scollegati da noi stessi, privi di obiettivi spirituali siamo più preoccupati del peso del nostro corpo e non di quello della nostra anima. Perché alla donna incinta di sette mesi è proibito sollevare pesi superiori a 0 (dicasi zero) chili? Quindi una gravida non può sollevare una penna? Capite bene il peso di certa assurda burocrazia, dei lacci e lacciuoli che affossano l’economia italiana e le fanno perdere competitività, facendo diventare le aree industriali un luna park per abbandonologi, e le nostre esistenze prive di senso.

Dove si trova: in via Olbia a Siniscola (NU). Google Maps