Militanza escursionistica ed ecologia acustica: dialogo/intervista con VacuaMoenia

Questo è un brevissimo video che abbiamo girato qualche mese fa in una zona di campagna. Da lontano sentivamo un battere ritmico ma non capivamo cosa fosse. Ci siamo trovati poi di fronte a una casa abbandonata che stava in qualche modo… suonando. Ci è sembrato adatto per introdurre il dialogo/intervista che segue. Però prima guardate e ascoltate il video (volume alto): 

I paesaggi sonori di VacuaMoenia

VacuaMoenia è uno dei progetti che seguiamo con interesse da più tempo. Si tratta di un progetto indipendente sullo studio dei paesaggi sonori dei borghi rurali, delle case coloniche e dell’abbandono in Sicilia. Dopo alcune esperienze simili precedenti, VacuaMoenia nasce ufficialmente nel 2013. Visto che abbiamo sempre sentito una certa affinità tra loro e Sardegna Abbandonata, abbiamo fatto una chiacchierata iniziando così a costruire un ponte immaginario – non quello sullo stretto, ma quello tra le due isole grandi, Sicilia e Sardegna, e sui rispettivi progetti che in qualche modo esplorano la dimensione dell’abbandono. 

Cosa sono i borghi rurali di fondazione e perché vi siete focalizzati proprio su questi nella vostra ricerca?

Siamo arrivati casualmente a conoscere questi luoghi. Le prime ricerche infatti erano focalizzate sui paesi colpiti da terremoti o spopolati durante il Novecento. Ricorrente però era già l’interesse per i luoghi dimenticati, abbandonati e liminari.

I borghi rurali di fondazione e di servizio — credo che sia la migliore definizione per questi posti, soprattutto in un momento in cui il termine “borgo” è abusato — sono stati fondati dal fascismo insieme ai progetti dei villaggi operai e dei gruppi di case cantoniere. L’idea era quella di riprendere l’impostazione già attuata in diversi luoghi d’Italia, contestualizzandola alla Sicilia. Così, si costruirono solo i servizi essenziali per la popolazione contadina, sparsa nei latifondi. Non erano previste espansioni urbanistiche, condannando questi posti a rimanere satelliti rispetto al centro rurale di riferimento. Dietro a tutto questo, c’è una politica legata alle migrazioni interne, allo “sfollare le città”, alla volontà di non aggregare le masse contadine e proletarie.

Uno degli aspetti più paradossali, credo, è che le stesse applicazioni siano state attuate anche durante la repubblica: la Regione Siciliana, infatti, oltre ad aver assorbito funzionari dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano nell’Ente di Riforma Agraria, ha continuato nella realizzazione di borghi, case e strutture così come pensate durante il ventennio. Un approccio anacronistico che giustificava però milioni di lire da spartire, favoritismi e corsie preferenziali da giustificare per la realizzazione di opere di bonifica e riforma fondiaria.

Che i borghi, le case coloniche e i villaggi operai siano il nostro punto di interesse principale è indubbio ma abbiamo rivolto l’attenzione anche a ferrovie e impianti industriali, come le antiche miniere di cui la nostra isola è ricca.

Una cosa che credo ci abbia fatto sentire molto vicini al vostro progetto è la sensazione di transitorietà. Nel vostro nome c’è il “vuoto”, ma ci sono anche le mura. Il vuoto, per come la vediamo noi, può contenere tutto. Dunque quelle mura forse sono vuote ora, ma possono contenere cose che ancora non sappiamo. Per voi quando si dire che un posto è definitivamente “abbandonato”? E in che senso?

Il termine VacuaMoenia è un latinismo che però ne Cicerone ne Livio ne altri avrebbero mai usato, semplicemente perché non esisteva. L’ossimoro che si crea però ci piace molto: per definizione le mura non possono essere vuote, sono formate da pietre, materiali duraturi nel tempo cosi come durature sono le memorie che questi luoghi portano con loro. Memorie che noi cerchiamo di far tornare attraverso il suono e i documenti d’archivio.

Il vuoto stesso però non esiste se non in contrapposizione ad un pieno momentaneo. L’assenza della materia di cui parliamo è la mancanza delle parole che descrivono chiaramente una condizione di transizione quella che passa dall’abitare all’abbandono e che è contemporaneamente il paradosso che sussiste in ogni ente: noi pensiamo ad una casa, perché conosciamo ciò che casa non è, noi pensiamo ad un luogo abitato perché esiste qualcosa che non lo è che ne definisce lo spazio e il tempo.

L’abbandono nel sentire comune è antropocentrico. L’uomo va via, lascia i luoghi, ma le forme non scompaiono e la materia non addomesticata modifica le mappe aprendosi a nuovi significati, spesso più profondi, trasformando le memorie e sottolineando la caducità della presenza umana.
Questo significa che la momentanea situazione di non-identità rende possibile la ricomposizione delle coordinate attraverso elementi geografici non necessariamente cartografici che creano i luoghi immaginati di cui parla Arjun Appadurai in cui si intersecano più scapes, quelli tangibili degli oggetti, altri più eterei o non ancora intercettati.

Un’altra cosa che ci piace molto è che usate più linguaggi complementari fra loro, più porte d’accesso per entrare in questi luoghi. Ci sono le mappe, le fotografie, i testi, i video, e i suoni. Per chi fruisce c’è un aspetto al quale dare più importanza nel percorso di scoperta oppure è indifferente? Considerando com’è nato il progetto mi verrebbe da dire il suono, ma l’aspetto fotografico spesso “ruba spazio” a tutti gli altri, dato che la vista è un senso preponderante, che si impone: per sentire forse bisogna chiudere gli occhi?

Navigando sul nostro sito, ogni pagina dedicata ad un luogo è organizzata secondo uno schema che abbiamo ideato nel tempo: mappa, suono, documentazione archivistica e infine immagini. Questo è l’”invito” che facciamo all’utente ma chiaramente è libero di esplorare oppure può usare la mappa organizzata per periodi di fondazione e caratteristiche storiche.
Come alcune delle nostre installazioni, in primis gradients, chi guarda il sito è un esploratore che sebbene guidato dalle nostre considerazioni, che partono dal suono come se fosse l’atto di nascita di un individuo che poi diventa indipendente e autonomo, è stimolato a farne di proprie e a compiere delle scelte, dall’uscire dal sito all’andare l’indomani in un luogo a sentire il vento tra le pietre.

I luoghi che scegliete sono sempre completamente disabitati? Oppure capita  che sia presente anche l’essere umano, fisicamente, con corpo e voce?

La maggior parte dei luoghi è disabitata dall’uomo. Ruderi che però hanno una forza evocativa disarmante, spiazzante. La cosa è ancora più forte quando si leggono i documenti conservati negli archivi che raccontano di custodi, maestre e parroci che facevano di tutto per mantenere in vita quegli ambienti.

In altri posti, invece, la presenza umana c’è ma è sporadica. Ce ne rendiamo conto solo perché appesa ad una porta c’è uno straccio, ci sono gli attrezzi per la campagna o altri oggetti di vita quotidiana.

I luoghi in cui l’uomo vive costantemente sono pochi ma ci hanno sempre dato la possibilità di capire e assaporare come si viveva nei centri rurali della Sicilia interna. Abbiamo, ad esempio, bellissimi ricordi a Borgo Cascino (EN) dove abbiamo intervistato gli abitanti e dove abbiamo anche partecipato alla festa del patrono.

Ci sono dei suoni che caratterizzano alcuni tipo di luoghi? Con l’esperienza di questi anni avete notato dei suoni ricorrenti? Il vento, la presenza di alberi oppure no, strade vicine con camion che passano, i versi di animali… Da questi suoni cosa si può capire?

Esiste un immaginario, che esige di essere confermato, in cui alla mole opprimente di suono delle città corrisponda una microgalassia acustica lenta nel tempo e appena percettibilmente udibile nello spazio che risorge nelle campagne e nei luoghi non urbani. In parte questa condizione è reale considerando che i suoni dei paesaggi abbandonati spesso diventano i protagonisti di uno sfondo silenzioso in cui il canto – termine che può valere sia per l’uccellino che per una finestra – emerge integralmente riempiendosi della possibilità che accada.

La teoria fenomenologica sul paesaggio sonoro ha diviso in maniera tecnica almeno tra categorie di eventi: suoni che dipendono da luoghi naturali (vento, acqua, fiumi), suoni che dipendono da animali e suoni che produce l’uomo.

Spesso capita che andando nei borghi sia predominante per assurdo quest’ultima categoria. È il caso delle pale eoliche, per esempio a Borgo Fazio, nella provincia di Trapani, il cui suono sommerge tutto il restante acustico. Quest’ultimo fenomeno è particolarmente interessante perché sebbene il suono del parco eolico sia un prodotto dell’uomo rende inutile la presenza umana, sia nella sua emissione che nella sua abitalità – le pale eoliche infatti sono automatiche, o almeno non richiedono un costante controllo giornaliero, e nessuno può sopportare il loro fragore a breve distanza.

Altri luoghi invece si comportano come degli acquerelli sonori e con poche pennellate esaltano una tela bianca senza sostituirsi alla bellezza del silenzio; il pieno e il vuoto di cui scrive bene Mastuo Basho in un Haiku del diciassettesimo secolo: “La campana del tempio tace/ma il suono continua/ad uscire dai fiori”.

Non esistono quindi delle vere ricorrenze, ma dei suoni che allontanano il confine spaziale dell’udibile aumentando il valore di ciò che sta in mezzo tra confine e centro. Esiste il vento che viene da lontano e non trovando ostacoli raggiunge le strutture e le muove. Esiste il lento andamento dei camion, il cui rombo filtratosi delle frequenze più alte, permane a cicli nell’ambiente proponendo un ritmo grave e sordo che fa da contrappunto alle altezze più acute degli uccellini che a seconda di come tira il vento si perdono tra gli alberi.

Più che capire questi suoni occorre liberare la dimensione dell’ascolto dall’uso e dalla genesi, immaginando che la realtà sonora sia una composizione non antropica in cui ogni elemento si esprime per farlo.

Questo non esclude le spiegazioni tecniche e quelle scientifiche, ma aggiunge la dimensione dell’imprevisto, una sorta di zaino che riportiamo nelle città quando, seduti davanti ad una finestra chiusa in un piano alto sentiamo il traffico gonfiarsi nei gravi e diventare ormai un mormorio mentre la meccanica dell’ascensore irrompe o quando in mezzo alla città di Palermo decidiamo di percorrere solo le strade in cui c’è più silenzio – cosa che consigliamo a tutti come esperienza.

A noi spesso è capitato, immergendoci per molto tempo in edifici abbandonati, di percepirli quasi come strumenti musicali. Qualcosa che forse va oltre il paesaggio sonoro. Case o fabbriche come strumenti musicali preparati, modificati. Una stanza ha il suo particolare suono, fuori un sottofondo di cicale, il ferro che da qualche parte batte ritmicamente, qualcosa che cigola, finestre che si aprono e chiudono… L’edificio a fianco potrebbe suonare totalmente un’altra musica. Stiamo esagerando?

No.
È esattamente questa condizione di riscrittura dei significati di cui spesso parliamo nel nostro progetto, quella di immaginare un luogo come uno strumento musicale.

È una riscrittura anatomica, in quanto organizzato così un luogo acquista nuovi organi e da questi nuove funzioni, assimilazioni e rigetti. Nel nostro progetto abbiamo sviluppato per un periodo il tema del cuore di un luogo, in cui cercavamo ciò che a livello sonoro pulsava, quel suono che poteva essere la sintesi che teneva in vita il paesaggio. In questa ricerca abbiamo messo assieme oggetti, tolto altri, usato un tipo o un altro di microfono e lasciato che alcune cose vibrassero da sè.

Abbiamo ascoltato il concerto delle cisterne di metallo che il vento suonava a Borgo Regalmici e le finestre di Borgo Guttadauro che sbattevano rumorosamente e all’improvviso.

Se, come spesso proponiamo ai partecipanti delle nostre soundwalks, ci chiedessimo come comunicare dei suoni a delle persone che non conoscono nulla di un luogo, non potremmo che produrre onomatopee – riproponiamo in sintesi una dimensione performativa del luogo.

Da qualche parte avete parlato di “crepe acustiche”. La domanda è questa: crepe che aprono su cosa? Crepe che ci fanno sentire il passato, il presente, il futuro? O una realtà totalmente altra che trascende passato, presente e futuro?

Le crepe si disegnano sulle strutture degradandole sino al loro collasso. Le crepe sono evidentemente l’accaduto più frequente in un luogo abbandonato ma nel nostro immaginario vanno considerate ampliandone il concetto. C’è una signora che ogni fine Agosto prepara la salsa di pomodoro per la sua famiglia, che è grande, quindi prepara almeno 4 o 5 casse di bottiglie piene.

Un giorno camminando tra delle pareti diroccate troviamo un tavolo in quella che doveva essere una cucina. Appeso al muro il calendario del 1984 e sul tavolo una cassa di bottiglie di pomodoro impolverate dove si leggono ancora delle etichette la cui marca non viene più commercializzata. Cosa è successo da quando le bottiglie sono stata posate sul tavolo a oggi? Quale è stata la prima crepa che ha rotto la struttura della quotidianità? Perché non è interamente collassata la struttura e nessuno che è passato da lì ha preso le bottiglie o le ha rotte?

Per rispondere a questa domanda occorre che i contenitori di passato, presente e futuro siano momentaneamente messi da parte in favore di modi di pensare il tempo non necessariamente legati al progresso o al decadimento organico, irreversibili come l’anzianità, ma a presupposti trasversali che non vanno pensati, ma decostruiti. Anche questa è una crepa.

Quando chiediamo i permessi per andare in un luogo incontriamo la dimensione della frattura. Se fossimo dei registi e stessimo girando un film sarebbe molto più facile essere autorizzati, ma quando riveliamo quello che facciamo – registrare suoni – ci si chiede: per fare cosa? C’è sempre qualche assessore, o un abitante del luogo o un vicino di casa che dopo qualche ora, giorno o mese racconterà di questi che stavano registrando suoni e dall’ironia probabilmente passerà alla possibilità. Il suono introduce una nuova narrazione che incredibilmente non è mai stata prevista. In questo senso è crepa.

Ci parlate di un luogo, uno solo, che funziona come esempio per capire l’intero progetto o che invece, al contrario, fa eccezione? Insomma, qualcosa che in questi anni vi ha colpito particolarmente. 

Scherzando ci diciamo spesso: “Andiamo a Borgo Regalmici?”. Questo piccolo centro tra Agrigento e Palermo ha un fascino che ci ha rapito sin dalla prima volta. Una piccola piazza e alcune strutture — nel progetto indicate come baracche — e da una di queste svetta un piccolo campanile. Entrando ancora c’è l’altare su cui è posato un mazzo di fiori di plastica e nelle altre stanze ci sono piatti, valigie, utensili vari e un calendario del 1994.

Un luogo vissuto fino a metà anni Novanta che ha raccolto, forse ultimo evento della sua storia, decine di fedeli per l’arrivo del Vescovo Pappalardo, figura palermitana tra le più amate di quei tempi soprattutto per essersi posto in modo netto nella lotta alla mafia, quella mafia delle stragi. Rispetto alla nostra prima visita, però qualcosa è cambiato: poco lontano è stato installato un parco eolico che ha stravolto la quiete e di conseguenza il paesaggio di questo angolo della Sicilia.

Un altro aspetto in cui abbiamo riconosciuto una certa affinità è che guardando il vostro sito non si vede il logo della Regione Sicilia né di altri enti statali o fondazioni… Come sostenete il progetto? Per noi ad esempio sono state fondamentali le donazioni di chi ci segue. Di fatto ci basiamo esclusivamente su quelle.  

Siamo sempre stati un progetto indipendente. È certamente un problema la mancanza di fondi e di sostenibilità finanziaria ma al contempo ci permette di non avere vincoli.

Anche noi ci affidiamo alle donazioni che quando arrivano danno una boccata d’aria alle nostre tasche ma purtroppo non sono mai abbastanza.
In passato è successo più volte che per organizzare eventi di paesaggi sonori, ma ancora non esisteva VacuaMoenia, avessimo dovuto organizzare banchetti, aperitivi, cene in cui l’evento in sé era visto persino come un ostacolo.

È chiaro che il tema del nostro progetto spesso contrasta con organizzazioni pubbliche o private che hanno a cuore esclusivamente la riuscita in termini di pubblico di un evento se non la riuscita economica di loro stessi. Non pensiamo che la massa decreti la qualità di qualcosa, forse non pensiamo neanche l’esigenza che occorra spendere nel tempo per stabilire cosa sia la qualità, soprattutto quando è surclassata dall’interesse.

Anche in questo caso occorre una qualche sorta di mediazione (e dei visionari). A noi interessa seguire la crepa, per tornare ad una domanda precedente, e questa linea di frattura non è escluso che incontri fondazioni o enti interessati – solo sappiamo bene cosa non ci piace fare.

Voi non siete solo un sito, un progetto di ricerca tra archivi, libri, mappe e registrazioni sonore: l’esperienza di VacuaMoenia è anche off-line. È successo da subito o è stata una svolta avvenuta col tempo? Che tipo di attività state portando avanti? 

L’attività di VacuaMoenia sin da subito si è articolata in attività di archiviazione e mappe e attività performative soprattutto legate alla sound art e alla composizione elettroacustica e di paesaggi sonori, anche il sito cerca di ricalcare questa formula.

Un termine che inizialmente abbiamo usato per descrivere tutto questo è militanza escursionistica intendendo una inclinazione all’agire orientato all’escursione, ossia all’esplorazione di luoghi reali o immaginari.

Andare in un archivio è di fatto una sorta di escursione e come accade per gli alpinisti più esperti che conoscendo la botanica di un luogo così come i passaggi e i percorsi hanno una esperienza più completa, lo stesso avviene per l’archivista informato. È una esplorazione costruire mappe o registrare in un paesaggio. È esplorare passeggiare in silenzio. È esplorare pure progettare una installazione come se si stesse dando forma ad un giardino o comporre un brano rimontando le takes con forme e tecniche diverse, come un fioraio.

Il Covid-19 ci ha sicuramente un po’ rallentato nelle attività in loco, ma anche in questa occasione abbiamo organizzato delle registrazioni di paesaggi sonori per telefono, in realtà via skype, dove chiunque piazzava i microfoni dal proprio balcone e riscrivendo il significato della DAD lo trasmetteva via radio in tutto il mondo.

Avete mai presentato VacuaMoenia o coinvolto nel progetto persone che abitavano i luoghi che registrate?

Certo. Come dicevamo in precedenza, chi abita questi luoghi è spesso desideroso di raccontarli. Sul nostro sito, infatti, sono ricorrenti le voci degli abitanti che narrano, un po’ come succede con le carte d’archivio, fatti e vicende ma con un sapore più autentico e diretto rispetto a ciò che scrivevano i vecchi funzionari regionali che gestivano le sorti dei borghi.

Una domanda che a noi viene fatta ogni due giorni, e forse anche a voi: cosa dobbiamo fare di questi luoghi? Recuperarli, lasciarli come sono, guardarli o ascoltarli in un altro modo, studiarli? Voi cosa rispondete quando vi fanno questa domanda?

In Sicilia c’è una volontà di recupero almeno parziale di questi luoghi. Va detto che i centri rurali degli anni Quaranta sono state riconosciuti come patrimonio architettonico rappresentativo del Novecento ma per salvaguardarli, li dove possibile, bisogna essere scevri da qualsiasi preconcetto ideologico altrimenti si fa il gioco dell’incuria e del disinteresse mostrato finora. Gli altri luoghi, purtroppo hanno un destino già segnato e proprio per questo serve studiarli, ascoltarli e farli vivere in modi altri ed è quello che proviamo a fare ormai dal 2013.

A questo si aggiunge che occorre capire cosa significa recupero o tutela del patrimonio, cosa che negli ultimi anni, soprattutto dalla creazione del concetto di patrimonio intangibile e di tutta una schiera di militanti cercatori di patrimoni dal 2007 in poi, è argomento di discussione calda anche in ambito antropologico.

Bisogna chiederci cosa intendiamo per questi luoghi.

Forse la risposta è tutto quello che avete detto, in sintesi una visione.

www.vacuamoenia.net