Due cani di pietra da decenni fanno da guardia a una lunga storia legata al leggendario Benjamin Piercy

Uno dei cani da caccia all'ingresso della tenuta. VAI ALLE FOTO
Uno dei cani da caccia all’ingresso della tenuta. VAI ALLE FOTO

È difficile credere che, quasi un secolo e mezzo fa, il solitario altopiano di Campeda fosse uno dei centri d’avanguardia della neonata economia industriale sarda. Bisogna mettere parecchio in moto la fantasia per immaginare folle di imprenditori, operai, allevatori e semplici curiosi aggirarsi tra quelli che oggi sono i ruderi sferzati dal vento e dal freddo di un inospitale altopiano alle soglie dei 900 metri di altitudine.

Altri tempi, altre concezioni imprenditoriali e una serie di coincidenze geografiche hanno fatto sì che anche quest’angolo di campagna in mezzo al nulla abbia vissuto il suo momento di gloria. La fortuna di Padru mannu (grande prato), questo il nome originario della località, fu quella di essere situato nelle immediate vicinanze di Badde Salighes, sede della tenuta del leggendario ingegnere e imprenditore Benjamin Piercy. Il pioniere inglese acquistò il terreno tra il 1879 e il 1883 col beneplacito del comune di Macomer, che intendeva ringraziarlo per il suo ruolo cardine nella costruzione delle ferrovie regionali. Fino ad allora la zona era impiegata come pascolo e dal 1770 come piccolo centro di addestramento equino, quindi acquisita nel 1838 da tale Salvatore Antonio Pinna di Macomer, noto col pittoresco appellativo di “Conte degli ulivi”; nel 1850 vi costruì anche una vetreria col figlio Gioacchino, che restò attiva solo per pochi anni.

Mentre l’insediamento di Badde Salighes era focalizzato sul settore agricolo, Padru mannu lo era sull’allevamento. Piercy vi costruì infatti un modernissimo caseificio, il primo con valenza industriale in Sardegna, dotato di innovativi macchinari inglesi, tra i quali un processatore verticale di vapore e tre sterilizzatrici ermetiche a cassa, che per 30 minuti portavano il latte a una temperatura di 210 gradi. Latte, formaggi e burro venivano quindi trasportati nella vicina stazione ferroviaria di Campeda e caricati sui treni diretti a Cagliari, dove aveva sede una rivendita, una delle prime in Italia a commerciare prodotti caseari sterilizzati su larga scala.

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Ben presto, a tale attività si accompagnò l’allevamento equino che anche in questo caso, in piena linea con la vulcanica personalità di Piercy, venne potenziato e concepito in grande. Così Padru mannu divenne anche un centro di incremento ippico, sede di una stazione di monta per la selezione di alcune apprezzate razze equine e asinine che venivano vendute ai reparti militari di cavalleria (“produce i più bei cavalli […] e la razza asinina più stimata per corporatura e forza”, racconta il monumentale dizionario di Vittorio Angius). Nelle sue scuderie vennero ospitati anche parecchi cavalli da corsa con cui, soprattutto a settembre, si svolgevano frequentatissime fiere e manifestazioni con corse ad ostacoli ed esposizioni di costumi locali.

La manodopera dell’azienda era portata avanti da un gran numero di lavoratori provenienti soprattutto dai paesi del circondario, che trovarono alloggio nelle case appositamente costruite, e consideravano Piercy come un benefattore, data la possibilità offerta loro di sfuggire alla povertà e le carestie di quegli anni. L’imprenditore ricambiò l’affetto popolare costruendo una chiesetta neogotica (cattolica, nonostante lui fosse anglicano) dedicata al Sacro Cuore di Gesù, presente ancora oggi e recentemente restaurata.

La fervida attività proseguì anche dopo l’improvvisa e compianta morte dell’imprenditore, avvenuta nel 1888. Dopo anni di vicissitudini giudiziarie legate all’eredità, il figlio Benjamin Herbert prese in mano le redini dell’industria paterna dietro il pagamento di 422.000 lire e Padru mannu ebbe un’ulteriore sviluppo: solo nel 1903 vi risiedevano 35 famiglie in una trentina di case, e pochi anni più tardi arrivò a contare circa 200 abitanti.

Ma anche l’epopea di questo atipico villaggio industriale arrivò al tramonto: dopo alcune avvisaglie culminate con tentativi falliti di occupazione da parte dei contadini dei paesi vicini, nel 1943, anno della scomparsa di Piercy junior, si entrò in una sorta di limbo che si concluse dieci anni più tardi con l’esproprio dei terreni che furono spartiti tra decine di privati e il comune di Bolotana. A questo punto gli impianti industriali non ebbero più ragion d’essere e vennero smantellati. La fine ufficiale del villaggio risale al 1965, con la chiusura dell’ufficio di stato civile locale.

Ciò che resta oggi lascia trasparire solo pochissimi indizi delle glorie passate. Una piccola parte del terreno su cui sorge è stato inglobato da una piccola azienda agricola, ma per il resto Padru mannu è ormai una distesa di case diroccate in rossastra pietra vulcanica locale, in cui il tempo e i lenti crolli stanno uniformando il paesaggio, ormai poco distinguibile da un’enorme pietraia.

Gelo, nebbia, profonda solitudine e soprattutto vento incessante che contorce gli alberi e insinua un’inquietante atmosfera spettrale su tutta Campeda: elementi quasi primordiali che rendono difficile, soprattutto per noi uomini cosiddetti moderni, metterci nei panni di chi a suo tempo ha rischiato e impiegato risorse ed energie per un progetto lungimirante e un po’ folle in un luogo così ostile, ottenendo l’agognato ma effimero successo.

A rafforzare questo stridente contrasto tra natura e ambizione umana resta un particolare emblematico: le due splendide statue che ritraggono due fieri cani da caccia al cancello di ingresso della tenuta. Due figure opposte ad un panorama circostante alieno, due mondi lontanissimi che si sfiorano forse senza comprendersi: la dura realtà territoriale e agropastorale sarda di allora e gli ambienti ricchi, nobiliari e ovattati delle tenute di caccia vittoriane.

Dove si trova: lungo la Strada Provinciale 17, fra la Strada Statale 131 Carlo Felice e Bolotana.

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