Una famosa impresa sarda legata a un rapimento. Nata nel 1927, fallisce nel 2012 alla veneranda età di 85 anni. Oggi è completamente abbandonata.

Macomer, cittadina d’oro negli anni ’80. Si racconta che dai tanti paesi del circondario si preferiva venire qui per la spesa di ogni genere, piuttosto che andare a Sassari: dall’alimentare al corredo scolastico, dal vestito di festa a quello di tutti i giorni, il principale centro del Marghine offriva tutto il necessario, compreso l’acquisto di mezzi privati e aziendali. E dove si andava se non da Franco Locci per comprare un veicolo?

Oggi Macomer è un luogo carico di decadente fascino industriale, ricco di particolari, dettagli e oggetti incredibili. Nella sua storia anche una bruttissima vicenda privata, che è uno dei tanti capitoli scritti dall’Anonima sarda negli anni che vanno dal 1960 al 1990.

Andiamo con ordine: la società Locci nasce nel 1927, e saltiamo a piè pari direttamente negli anni ’70: c’è tanto da raccontare.

Nella memoria collettiva sarda l’impresa Locci è legata sicuramente anche alla fama di pilota di Franco Locci, e purtroppo anche a un triste fatto di cronaca. La concessionaria a marchio Fiat negli anni si è fatta un nome, dovuto anche al fatto che il signor Franco è un pilota vincente, così accade che uno dei tanti gruppi criminali dedito ai sequestri sta monitorando la sua situazione.

1978, 24 giugno. Tutta la nazione, isole comprese, è immobile per la partita Italia-Brasile dei Campionati del mondo. È la finale per il 3º – 4º posto, ma si sa, quando giocava la Nazionale, tutto il resto diventava relativo. Ma non per tutti: qualcuno usa il pretesto del vuoto creatosi in strada per mettersi in moto e rapire il piccolo Luca, figlio di Franco, con un’azione fulminea.

Il padre è fuori per una gara automobilistica, rientra di fretta e si mette subito alla ricerca di contatti per le trattative. Si susseguono gli appelli, compreso quello del Papa, all’epoca Giovanni Paolo I, dei vari vescovi sardi e di tutti i politici. Dopo 93 giorni di prigionia, fatta di paura, angoscia e buio Luca Locci viene rilasciato nella campagne di Lula in cambio di 300 milioni di lire.

Sette anni più tardi – e qui ritorniamo alle vicende della società – l’azienda ha 55 persone alle sue dipendenze, sempre più in espansione. Nel 1989 l’attività è al primo posto nelle graduatorie provinciali con fatturato annuo di 43 miliardi di lire e apre una filiale nella città di Sassari.

Negli anni 2000 i primi scricchiolii: nel 2002, 7 dipendenti vengono licenziati, ma secondo il titolare è un gesto per preservare i restanti 27 e le sorti dell’azienda, che come tutte le altre del settore, sta passando un brutto momento.

2003: il marchio IVECO, con annessa vendita esclusiva dei veicoli commerciali ad esso legati, gli viene revocato, visto il suo indirizzarsi su mezzi plurimarche. Alla fine del primo decennio, gli ultimi 18 dipendenti sono messi in cassa integrazione e due anni dopo la concessionaria purtroppo fallisce.

I freddi numeri non rendono l’idea di quello che era la società, i suoi diversificati servizi di officina, assistenza e vendita, che campeggiano sbiaditi su cartelli appesi nei giganteschi capannoni che siamo sicuri pullulavano di frenesia, rumori meccanici e vociare. Un’ulteriore aneddoto per farvi capire il valore della concessionaria: per vent’anni è stata una delle rivendite autorizzate del marchio Ferrari, unica in Sardegna e tra le poche in Italia.

Oggi, questa ex importante impresa sarda, è del tutto abbandonata. Dal grande cancello scorrevole aperto, si entra nello spiazzo che unisce l’ala uffici e quella meccanica. Ad accoglierci due auto e una… barca, a 30 chilometri dalla costa. La grande insegna LOCCI sembra del tutto integra.

Da una porticina di servizio si accede all’interno dello smisurato locale dedicato a tutti i servizi offerti, e anche dentro, l’accoglienza ce la riservano altre tre automobili. Riconosciamo una Fiat Bravo, una Lancia Thema e una Citroën.

I cartelli macchiati di “lacrime di guano” diventano il fil rouge dell’esplorazione, perché ci fanno da guida silenziosa, facendoci capire la divisione degli spazi all’interno del locale. Un altro elemento ripetitivo è la presenza di coppe commemorative di eventi, gare o partecipazioni: ad alcune manca la base, ad altre le alette, mentre pochissime sono integre.

Siamo in una officina, e non possono mancare i calendari di varie modelle, più o meno svestite, che sono deturpati da disegni di peni e dal tempo, da oli, polvere e orme di scarpe.

Quasi come fossero stelle filanti in giornate di Carnevale, rotoli di scontrini sono sparsi in tutto il pavimento; non mancano scartoffie, polistirolo e cassette di attrezzi, ripiani di metallo, scrivanie e pezzi di ricambio di ogni genere, il tutto alla rinfusa, dove regnano caos, disordine e gli immancabili piccioni.

Nel reparto verniciatura, sono i campioni di colore sparsi per terra che catturano l’attenzione. Riprendendo il discorso carnevalesco, paiono grandi coriandoli rettangolari lanciati alla rinfusa e, dopo tanti anni, c’è ancora l’inconfondibile odore di vernice che riempie solo quello spazio.

Da un’apertura che collega il reparto ad un altro, non possiamo non notare una motrice, che emana un senso di grandiosità, di possanza e di resistenza, nonostante ne sia rimasto solo lo scheletro. Ricorda tanto la storia del posto che stiamo visitando, sempre più increduli e sbigottiti e ancora più curiosi di continuare il giro.

Davanti a dei gradini che conducono nella zona che un tempo era dedicata alla cassa, tre fosse da ispezione sono piene di un miscuglio fatto di oli e altri liquidi e di oggetti buttati dentro da precedenti “visitatori”. Nei gradini di una di esse, un poster con la modella ritratta genera un forte contrasto con il nero della sporcizia dei liquidi viscosi.

Rimaniamo ancora più esterrefatti da una testa di bambola conficcata in un palo: proviamo a dare un senso all’oggetto, al suo eventuale uso, ma non arriva nulla, quindi proseguiamo il tour, che continua proprio nel reparto cassa citato poc’anzi, e perciò saliamo al primo piano.

Un angolo adibito a sala d’attesa, di un verde scuro sbiadito, ci fa capire che sono passati davvero tanti anni dalla sua messa in posa: nei braccioli del divano angolare, ci sono dei posacenere, e immaginiamo i clienti con la sigaretta in mano, in attesa di una firma, del nervosismo dovuto magari ad un eventuale primo acquisto o di un mezzo per ampliare il proprio fatturato grazie anche ad una miglioria motoria.

Una grande vetrata senza più il materiale trasparente, si affaccia su tutta l’officina, e la possiamo ammirare anche dall’alto, nella sua colossale vastità.

Il primo piano è più incasinato del piano terra, ci sono aree in cui non si vede il pavimento, ricoperto da fogli e contenitori da archivio, mentre altre da cocci di vetri in frantumi, depliant di automobili e residui di accessori da scrivania.

Floppini, dischi di Windows 95 e Microsoft Works, nonché PC davvero datati ci portano indietro nel tempo, agli albori della tecnologia che stava diventando alla portata di tutti. Ma quello che ci fa volare in quel piano è l’enorme e sbalorditivo bancone in pietra, con ripiani e angoli in legno: emana ancora adesso una forza e una soggezione che altrove non abbiamo trovato. Ripensiamo alla frenesia degli addetti che si muovevano dietro di esso, agli incessanti squilli dei telefoni, i rumori cartacei di fogli strappati o appena stampati, pinzate di punti metallici e chissà come doveva essere il vociare.

Lo sbattere di una porta chiusa dal vento, ci riporta alla realtà. Siamo di nuovo sulla strada, dove diamo un ultimo sguardo a questo gigante abbandonato pieno di storie e memorie.

Dove si trova: a Macomer, fra via Antonio Gramsci e Viale del Lavoro. Sconsigliamo categoricamente l’ingresso nella struttura. Google Maps.

 


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