Un avamposto dei Carabinieri a cavallo nella lotta al banditismo

“Un piccolo forte, che campeggia tutto bianco sul colle con le sue quattro torricelle”. È la perfetta descrizione della caserma di Manasuddas, contenuta nel libro “Caccia grossa. Scene e figure del banditismo sardo” del 1914, testimonianza del tenente di fanteria Giulio Bechi, veterano di una vera e propria guerra che insanguinò l’entroterra isolano tra il XIX e il XX secolo. Scarne ma efficaci parole, che dipingono come una vecchia istantanea questa piccola e bizzarra cittadella militare che sembra provenire da un tempo perduto e dimenticato.

Le sue origini risalgono intorno al 1850, dettate dalla necessità di ottenere un avamposto situato in profondità nel cuore della Barbagia. Venne da subito utilizzata come stazione dei Carabinieri a cavallo, arrivando a ospitare fino a trenta uomini e venti cavalli. Qualcosa di simile alla più tranquilla Foresta Burgos, con la differenza che qui si passava dalla teoria all’azione. La sua posizione strategica permise infatti di riconoscerla come punto di coordinamento e di partenza delle missioni di ricerca contro i banditi su tutto l’impervio territorio di Oliena.

Per decenni queste zone conobbero le dinamiche di quella che oggi viene identificata come guerriglia: scontri a fuoco, imboscate, pattugliamenti snervanti, coinvolgimento della popolazione civile, malessere sociale. Se le patriottiche cronache dell’epoca e, per contro, i miti popolari cantano instancabili gli eroismi e gli ideali dei combattenti di entrambe le parti, i frammenti di dialoghi citati da Bechi ci riportano alla realtà: Manasuddas è il simbolo di una guerra sporca, crudele, combattuta in un territorio alieno e ostile, persino con una lingua diversa, con soldati disillusi e inviati “per punizione”.

“Mi inerpico su pel nastro tortuoso che mena alla caserma. Tutto chiuso, uscio e finestre. Dormono. Si batte la sveglia; un latrato risponde di dentro, poi si affaccia alla porta un carabiniere dagli occhi azzurri, assonnati, vestito a mezzo. Si entra: un altro carabiniere scaturisce da una porta, bruno, svelto, i mustacchi alla D’Artagnan.”

[…]

“Coraggio, brigadiere, non resterà mica qui in eterno, eh?”
Il buon uomo cacciò un sospiro melanconico capace di spingere un brigantino.
“Eh! Signor tenente – esclamò con un forte accento ambrosiano – la mia disgrazia è di non capire una saetta di questa sagrata lingua!”
“È arrivato da poco, eh?”
“Oh! No, signore, son qui da tre anni e più, ma che vuol farci? Non li capisco, è inutile… non li capirò mai questi maledetti saraceni!”

[…]

“Quando si fu di nuovo in marcia, presso la svolta della via che spariva in una piega dei monti, mi volsi a gettare un’ultima occhiata pietosa a quel romitorio, dimenticato lassù dalla civiltà. In basso il dado della casa cantoniera, tutt’intorno un accavallarsi di rupi, le eterne vette intignate: la solitudine. “È un luogo di punizione. […] Ci mandano quelli, sa… che hanno preso qualche cotta. Così lassù si calmano.”

Non sapremo mai se il brigadiere lombardo sia finalmente riuscito a tornare a casa, ma quel che è certo è che a restare qui in eterno rimarrà solo Manasuddas. Dagli anni ’90 la casermetta è stata abbandonata ed è andata incontro a un beffardo destino: l’inflessibile e pioneristico avamposto della Legge e dello Stato è diventato un crocevia di delinquenza e illegalità. Dapprima una proposta di trasformazione a comunità di recupero per tossicodipendenti cancellata a suon di bombe, poi luogo di ritrovo per occultisti non meglio precisati, infine teatro, dieci anni fa, di un duplice ed efferato omicidio.

Ancora oggi, proprio come ritratto da Bechi un secolo fa, la solitudine regna su questa ruvida valle dominata dal massiccio del monte Ortobene. Gli alberi sono cresciuti nascondendo il fortino dalla strada sottostante, isolandola dal mondo esterno. All’interno, crivellato da colpi d’arma da fuoco e bombolette spray, solo silenzio, inquietudine, e devastazione. Manasuddas resta un luogo dalla memoria scomoda e tragica, segnata dalla violenza protrattasi fino ai giorni nostri, un opprimente peso da dimenticare.

Dove si trova: lungo la SS129 Trasversale Sarda, tra Nuoro e Galtellì. Google Maps.