Una decina di costruzioni che ospitavano decine di piccoli appartamenti abitati dagli operai della miniera di Montevecchio e dalle loro famiglie.

A colpire è soprattutto la posizione: il villaggio Righi è stato costruito sul pendio piuttosto scosceso che dalla cima scende fino al cantiere di Levante della miniera di Montevecchio. Dunque dalle finestre delle loro camere da letto gli operai potevano vedere i cantieri e il pozzo minerario anche quando non lavoravano.

Siamo in alto, in una zona molto esposta al vento, dal quale si vedono le pale eoliche della pianura di San Nicolò d’Arcidano e Arbus. Davanti a noi spunta imponente il monte Arcuentu. Il villaggio Righi è attraversato dalla strada che da Arbus porta a Montevecchio, percorsa spesso da appassionati di ciclismo e di corsa, nonostante il forte vento o forse proprio per questo. Noi, sarà per una leggera influenza, sarà per i numerosi e pantagruelici pasti festivi, facciamo fatica a salire dal primo edificio fino all’ultimo, mentre alcuni abitanti della vicina Arbus, più vicini a super-eroi mitologici che a mortali comuni e addirittura banali come noi, scorrazzano tra salite, discese e tornanti incuranti del vento freddo e perfino della pioggia. A proposito: magari non c’entra niente, ma a testimonianza del nostro affetto per la gloriosa popolazione arburese, ricordiamo che in paese è possibile vedere il coltello arburesa più grande del mondo, nonché tuttora coltello a serramanico più pesante del mondo (295 chili, ed è lungo quasi 5 metri). Detto questo, torniamo al villaggio Righi.

Costruito nel 1938 e abbandonato a fine anni 70, il villaggio minerario deve il suo nome all’ingegnere Arvedo Righi, direttore della miniera dal 1923 al 1930, cioè per soli sette anni, ma a quanto pare abbastanza per lasciare il segno. Si dice che lasciò la Direzione in polemica, contrario alla gestione finanziaria della miniera. Il villaggio si trova lontano rispetto alle residenze dei dirigenti (sul versante opposto del monte), probabilmente per avvicinare il più possibile gli operai dal luogo di lavoro, ma anche per sottolineare la divisione gerarchica – o classista, se preferite. È evidente la differenza, sia nell’architettura sia nella posizione, tra queste modeste abitazioni e, ad esempio, la famosa palazzina della direzione, lussuosa e sfarzosa e tuttora visitabile (siamo pur sempre nel parco geominerario). Nel Villaggio Righi oggi sono rimasti soli degli scheletri di cemento esposti alle intemperie e frequentati da volatili, caprini e dai giovani umani dei paesi limitrofi, ma abitati stabilmente solo da piante e arbusti capaci di crescere ovunque.

A guardare oggi il Villaggio Righi sembra davvero difficile immaginare una vita calda, quotidiana, famigliare. Non è rimasto praticamente nulla a parte qualche piccola decorazione sui muri, le tracce dei camini, le mattonelle, i vecchi interruttori della luce e altri piccoli segni di una precedente vita domestica. In alcune stanze troviamo le solite scarpe, qualche giocattolo, alcuni giornali, ma poco altro e quasi niente che oggi possa avere un significato, che possa essere riconosciuto come un segno familiare. Come spesso capita, l’oblio è rappresentato dagli escrementi di uccelli e altri animali. Montagne di polvere e di guano, strati e strati sovrapposti negli anni di abbandono ricoprono la maggior parte delle stanze come una discutibile moquette. Al primo piano delle palazzine, quando il tetto è sfondato, crescono riparate dalle pareti varie specie di piante, che riescono così a prendere le quantità giuste di luce e acqua e ad evitare il vento.

Il Villaggio Righi visto da Google Maps. Sopra, il cantiere di Levante della miniera di Montevecchio.

Su una rampa di scale, ad esempio, una verde calla cresce solitaria e molto meglio di quanto crescerebbe nel salotto di casa nostra. Condizioni casuali ma a quanto pare perfette di luce, aria, acqua e terreno la fanno crescere meglio di quanto riusciremmo a fare noi con tutta la buona volontà di questo mondo.

A parte il guano, l’altro segno dell’oblio sono le scritte oscene sui muri. È come se il senso di un edificio regredisse allo stadio infantile, fino all’informe, al non-nato. Come abbiamo già scritto altre volte per altri edifici simili, questi scheletri di memoria diventano spesso sfogatoio di pulsioni sessuali inespresse, imminenti, lontane, o che mai arriveranno. Buchi sul muro trasformati in ani, organi genitali, rappresentazioni naif di corpi femminili, seni, bocche, cosce e corpi che di stanza in stanza perdono la loro forma, diventano sempre più stilizzati e insensati, come se l’essere umano lentamente sparisse, in un percorso di regressione che a un certo punto inizia a confondersi con semplici macchie sulla parete e dall’anatomia si passa alla geografia: l’intonaco scrostato dà luogo ad arcipelaghi immaginari: isole, penisole, teschi, crateri lunari. È come guardare le nuvole: ciascuno ci vede ciò che vuole.

Ma tra peni, isole, deretani e altri orifizi, troviamo anche la piacevole eccezione rappresentata da un’intera parete dedicata alla Rivoluzione: autonomia operaia, giustizia proletaria, una stella, un vascello, ma soprattutto una scritta quasi illeggibile che invita a unirsi per “una giusta causa”. Ma perché non scriverlo sui muri esterni, sulla strada, più visibili? Perché nascondere un messaggio così importante in una stanza così nascosta? Evidentemente per i movimenti rivoluzionari una severa selezione tra i potenziali adepti è fondamentale.

E dove arrivano gli uccelli, le macchine fotografiche e la geolocalizzazione, ormai lo sappiamo, arrivano anche gli street artist, uno dei flagelli che colpiscono gli edifici abbandonati. La bella doppia scalinata di uno dei palazzi di Villaggio Righi è stata trasformata in una specie di bizzarro e suggestivo altare sacrificale dai colori accesi, con un mucchio di ossa di animali e la scritta SERAPIS, riferimento al nome della collina di Montevecchio, ovvero Genna Serapis, dedicato alla divinità greco-egiziana Serapide, adorata in tanti modi ma anche come dio del mondo sotterraneo, dunque perfetto per i minatori.

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Scattata anche questa foto e preso atto anche di questo segno, ci spostiamo nel retro dell’edificio, dove qualche visitatore ha sollevato una pietra conica e l’ha messa in piedi al contrario: la base sopra e la punta sul terreno, in un equilibrio precario. Una metafora voluta? Un gesto involontario ma pieno di senso? Nel dubbio non la tocchiamo, lasciamo le cose come stanno e ci allontaniamo. Giusto il tempo di dare uno sguardo al lavatoio del villaggio, proprio quando scoppia un temporale. La pioggia però non ferma l’ennesimo corridore coperto con abbigliamento tecnico, termico, impermeabile e isolante attraversa Villaggio Righi a tutta velocità.

Dove si trova: sulla strada che collega Arbus a Montevecchio. Google Maps.

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