Una torre di ruggine immersa in un paesaggio ambiguo e meraviglioso, dove dormire e abbandonarsi.

A volte bisogna guardare di lato. Ci capita spesso di fissarci con alcuni luoghi totalmente secondari, almeno apparentemente. Dopo aver seguito un percorso a piedi dal villaggio di Montevecchio e che, lungo un bel sentiero alberato, costeggia il cantiere di Levante della miniera, spuntiamo in un enorme spazio brullo. Sembra di essere atterrati su un altro pianeta. Ma non è così, siamo sempre in Sardegna.

È la zona dei fanghi accumulati nei decenni prodotti principalmente dalla lavorazione dei minerali della imponente laveria Principe Tomaso, che vediamo sullo sfondo. Il soggetto principale, la protagonista, in teoria è lei. Ma a colpirci in quel momento non è la grande laveria, o meglio, non solo: ci colpisce un dettaglio più piccolo. Il Pozzo Faina.

È un pozzo di estrazione che oggi può apparire totalmente secondario, di fronte alle monumentali strutture che abbiamo intorno, sicuramente ben più appariscenti; ma sentiamo che è qua che ci dobbiamo fermare, e così facciamo. Restiamo semplicemente seduti di fronte a questa torre di ruggine per qualche ora. La guardiamo, la esploriamo, la dipingiamo, a un certo punto ci addormentiamo.

Acquerello di Gianluigi Concas

La struttura è ovviamente pericolante, ma cosa non lo è? Non resta che salire su questo monumento all’ossidazione, da cui si gode un bellissimo panorama di tutta l’area e, chi ha voglia, può riflettere sull’esistenza. Noi no. Chiudiamo gli occhi, ci godiamo il sole e una leggera brezza, il silenzio, la pace, interrotta ogni tanto dal passaggio di aerei militari diretti al poligono di Capo Frasca. Che facciano quello che vogliono, ora non ci interessa. Noi ci immergiamo nella ruggine e osserviamo la magia dell’ombra. 

Non sono moltissime le informazioni su questo pozzo. Sappiamo che è del 1963, un periodo particolare per Montevecchio, quando si cercava di evitare una crisi della miniera. Già a metà degli anni ‘50 si avvertivano le conseguenze dell’impoverimento dei filoni metalliferi. Per prevenire e affrontare la crisi si fondono in un’unica società la Montevecchio e la Monteponi, nel 1961. Il nuovo presidente è Carlo Faina, ed ecco il perché del nome di questo pozzo. Non il mammifero onnivoro della famiglia dei mustelidi, ma un presidente. 

In un testo del 1967 si parla del “nuovo Pozzo Faina a quota 233, profondo m 441, dal quale si irradierà la ricerca verso E. oltre il sistema di faglie che hanno fino ad ora limitato i lavori di coltivazione”. Era probabilmente uno dei tentativi di risollevare la situazione critica, ma la crisi arriverà comunque, inevitabilmente, come sempre. “Tutto questo è già accaduto e accadrà di nuovo”.

A 55 anni di distanza il Pozzo Faina è diventato un luogo alieno e suggestivo, un po’ per i colori, un po’ per questa improbabile torre rosso ruggine in un’area che può sembrare desolata o estremamente piacevole e rilassante, a seconda di come viene illuminata. La luce ci suggerisce come percepire questa parte così misteriosa del cantiere di Levante. Ma non c’è nulla di chiaro: a catturarci è proprio l’ambiguità del luogo. 

Paesaggi ambigui, imprevedibili, generati dalle incredibili trasformazioni che questo territorio ha subito nei decenni di attività di estrazione. Il confine tra naturale e non-naturale non esiste più: laghetti, discariche, veri e propri canyon, aree desertiche, fanno parte di un tutt’uno dove cercare confini è tempo perso. Non resta che l’abbandono, in tutti i sensi. 

Dove si trova: all’interno dell’area del cantiere di Levante, nella zona dei fanghi, presso il cantiere Piccalinna a Montevecchio. Google Maps


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